L’adolescenza è sempre stata un’età della vita in cui la spinta alla crescita è promossa in modo spontaneo e generata da processi che naturalmente si mettono in atto. Questa spinta trova poi nel contesto sociale e culturale in cui si cresce elementi favorevoli allo sviluppo o, in altri momenti e per altri aspetti, condizioni che non implementano o addirittura impediscono i passaggi obbligati di una crescita che apra all’età giovanile e adulta.
Complessivamente la gran parte degli adolescenti raggiunge e gode, come è sempre stato, di un buono stato di benessere che permette loro di avere risorse sufficienti per superare momenti di difficoltà e di fare della propria vita un’esperienza positiva nel modo della scuola, in famiglia, nelle relazioni con i coetanei.
La nostra attenzione qui si concentra però su quella percentuale di adolescenti che incappano in difficoltà e blocchi di crescita. Esistono adolescenti che provano dolore per se stessi, generato da una rappresentazione di sé che fa sentire non adeguati. Un malessere tenuto segreto ma che, col passar del tempo, si cronicizza e si manifesta in forme che divengono patologiche.
Le nuove forme di sofferenza sono connesse al cambiamento del contesto sociale che ha visto il passaggio da una società definita edipica, fondata sulla colpa, su modelli educativi che comprendevano punizioni e ruoli ben definiti di autorità e di potere, ad una cultura del narcisismo, in cui il riferimento è solo a sé, ad ideali di bellezza e successo, in cui il corpo è esposto ed esibito. Tutto ciò si riflette in modo significativo sull’adolescenza, non solo per gli aspetti educativi, ma soprattutto perché in quest’età uno dei compiti evolutivi è la mentalizzazione del corpo, lo sforzo di intuire ed accettare le trasformazioni e i cambiamenti fisici impellenti che si presentano e vanno pensati come definitivamente propri.
Per quei ragazzi che iniziano a pensarsi come non degni di attenzione, con un corpo sentito come impresentabile, senza fascino e carisma, si apre un tempo dominato da quell’emozione segreta, che pervade tutti i momenti di incontro con l’altro, che è la vergogna, e il dolore che ne consegue, per un corpo sentito come offensivo. Stretto correlato di ciò è la difficoltà a pensarsi capaci di affrontare la competizione con i coetanei per la propria virilità o femminilità, con la messa in gioco di strategie seduttive e di collaudi della propria corporeità sessuata. I timori e le angosce per non sentirsi abbastanza riconosciuti spingono a sottrarsi alla vergogna e al dolore con forme che cercano di manipolare il corpo o addirittura di farlo sparire.
È impellente per i ragazzi che vivono tali situazioni trovare soluzioni al dolore, mitigarlo in qualche modo per sentire che si sta meglio. Ciò è tipico delle ragazze che smagriscono il proprio corpo fino a limiti insostenibili, o di chi lo manipola o lo tagliuzza per spegnere il dolore mentale attraverso una rapida e immediata dose di dolore fisico, o, ancora, di chi medita su soluzioni definitive, che tolgano di mezzo il corpo per continuare ad esistere solo nella memoria degli altri: una soluzione vendicativa per chi ha fatto loro del male o di eterno affetto per chi gli ha voluto bene.
Una nuova soluzione negli ultimi anni viene scelta da schiere sempre più numerose di adolescenti e ha trovato efficaci strumenti nelle nuove tecnologie. È la soluzione di quei ragazzi che spariscono progressivamente prima dalla scuola, con giornate perse per malesseri fisici, e poi via via per impossibilità a riprendere le tappe previste dal percorso didattico. Sono quegli adolescenti, prevalentemente maschi, che per star bene decidono di ritirarsi da tutto: scuola, amici e perfino dalla famiglia. Sono gli adolescenti, ma a volte anche giovani adulti, che sono stati definiti “hikikomori” dai media, una parola giapponese, luogo di origine di questo fenomeno, che significa nascondersi, ritirarsi. Nei termini più propri della psicologia attuale il temine usato è “ritirati sociali”, per la loro modalità di sottrarre il corpo alle relazioni concrete della vita, limitandosi a contati e relazioni virtuali. In questo modo trascorrono i loro giorni e soprattutto le loro notti, momento in cui, liberi dalla presenza anche dei famigliari, entrano in contatto tramite web con altri che vivono nelle più disparate parti del mondo.
La valutazione attenta di questo fenomeno ci suggerisce che la rete sia una difesa, un sostituto, una protezione per il ritirato sociale: è un modo per continuare a sentirsi qualcuno per qualcun altro, che non ti disprezza, di fronte al quale puoi sentirti sicuro perché si rimane dietro uno schermo dove il corpo non si vede e anche la vergogna quindi sparisce. Internet è il luogo dove questi ragazzi si sentono importanti, un luogo di potere, con le sue promesse di conquista di denaro facile o di fama. Lì si trovano spettatori, lì c’è riconoscimento e trionfo nei giochi di ruolo o nelle battaglie degli ‘sparatutto’, dove si ritrova finalmente la prova virtuale della propria virilità o, in scambi fotografici e lunghe confidenze, la conferma della propria seduttività femminile.
Chi ritiene di aver un corpo inaccettabile, da buttare, in questo modo trova uno spazio relazionale che protegge dall’ideazione suicidale o dal crollo psichico. Le nuove tecnologie non sono quindi una realtà che va demonizzata perché sequestra i ragazzi; non sono la causa del ritiro ma la conseguenza. Causa effettiva è essere traumatizzati dal potere della bellezza e del successo dei coetanei, è la paura di essere impresentabili indipendentemente dalle proprie qualità e da quello che si sa fare.
Un nuovo dispositivo: “La Città di Smeraldo”
Trovandosi a ragionare su questi aspetti e problematiche degli adolescenti di oggi, che vivono forme di disagio nuove e non facilmente comprensibili per le loro famiglie, è nata l’idea di offrire un luogo dove potersi incontrare per intercettare il loro dolore e rimettere in moto il loro percorso di crescita. Nasce così “La città di Smeraldo”, una associazione nuova sul territorio, voluta e sostenuta dai Lions club Host di Saronno con il patrocinio dell’Amministrazione comunale di Saronno. L’idea è di costituire un dispositivo, dove i ragazzi, con i loro genitori possano incontrare un gruppo di psicologi e psicoterapeuti, che si occupano di problemi legati alla crescita e all’adolescenza, coadiuvati da figure educative che intervengano poi con i ragazzi favorendo attività creative e di socializzazione.
Costituire un dispositivo, quale un consultorio per adolescenti e le loro famiglie, significa innanzi tutto porre l’attenzione e sensibilizzare su un problema che altrimenti non troverebbe sufficiente visibilità. Oltre a ciò, significa creare un luogo concreto dove poter trovare un aiuto, un posto dove tutti possano rivolgersi per affrontare in modo il più possibile efficace un problema. Sapere che esiste la possibilità di chiedere aiuto fa sentire meno soli.
È fondamentale, quando si tratta di adolescenti, la presa incarico di tutto il contesto famigliare, non solo del figlio quindi ma anche del padre e della madre, che ben conoscono il soggetto e che stanno lavorando per la sua crescita. Nella “stanza delle parole”, con l’aiuto di professionisti dell’adolescenza, anche il padre e la madre porteranno le loro angosce e il loro dolore che deve trovare il modo di tramutarsi in risorse per il figlio. Capire cosa pensano i genitori di quello che sta accadendo e quanto incide nel malessere del figlio, sarà momento essenziale quanto comprendere cosa pensa quel figlio di quel padre e di quella madre, per poter dare un senso a fantasie e angosce reciproche. Sarà essenziale aiutare i genitori ad evitare agiti inutili se non dannosi, quali sabotare gli strumenti tecnologici: non serve e si corre il rischio di riportare alle difficoltà iniziali. Altra soluzione è invece riformulare il rapporto che loro stessi come genitori hanno con la rete; generalmente sanno che il figlio passa la notte su internet ma non sanno cosa fa, chi incontra, quale è la sua identità su internet, quale è il suo avatar, se ascolta musica o guarda un film, se ha un profilo social, quali giochi lo appassionano. Stare con il figlio all’interno della rete è più importante di limitarsi a dettare regole e orari. Coinvolgere i genitori è utile per favorire una ripresa del loro ruolo affettivo come madre e padre, per un modo diverso e nuovo di leggere le situazioni, di sentire e di essere.
La stanza delle parole sarà poi il luogo dove i ragazzi, delusi e arrabbiati con sé, porteranno le loro narrazioni. Il cambiamento passa attraverso la narrazione di se stessi e questo diviene un’esperienza soggettiva, in tempo reale, con qualcuno di concreto. Per riuscire a pensare i propri pensieri, sentire e vivere le emozioni, bisogna prima iniziare a narrarle, a raccontarsi. Lì si generano discorsi che costituiranno un punto di riferimento nelle relazioni successive e quotidiane. La prospettiva evolutiva che fa da riferimento, permette di individuare e condividere le tappe di una crescita interrotta, che è stata abbandonata da tempo, da anni, insieme alla scuola e al gruppo degli amici. Obiettivo non è però riscrivere il passato ma organizzare il futuro e aprire il presente a nuove vie di uscita.
I ragazzi devono trovare un luogo in cui elaborare il lutto per il Sé ferito, che considera il proprio corpo non come utile e fatto per il piacere, ma come inaccettabile e da maltrattare. Si deve recuperare un pensiero sul proprio corpo come complementare a sé, ai propri sogni e desideri. Trovare il coraggio per riprendere i legami con gli altri, che non saranno più i vecchi compagni di scuola, ma un gruppo che permette di realizzare se stessi ed essere riconosciuti con le proprie qualità. Sentire che la propria fatica di crescere ha valore, ha valore il dolore, le paure, la noia, la disperazione.
Accanto alla stanza delle parole, un’altra stanza, un laboratorio, sarà il luogo dove si passa “dal dire al fare”. È un momento di grande delicatezza quando l’anoressica abbandona il proprio digiuno ascetico, o quando i ragazzi che avevano maltrattato il corpo per mesi o anni fino quasi ad ammazzarlo perché non era sufficientemente gradevole da poter far parte del proprio sé decidono di deporre le “armi”, oppure quando i ritirati sociali iniziano a lasciare l’eremitaggio domestico della loro cameretta e di ricomparire da dietro al computer dove si erano rifugiati. Quando questo momento si verifica ci vuole qualcuno di competente, figure educative che hanno capito bene quello che sta accadendo, che creino dei momenti in cui la socializzazione può ripartire.
Con la sensibilità dovuta bisognerà creare dei piccoli gruppi di incontro in cui si fa qualcosa assieme, dove si rimette in gioco il corpo e si tollera il contatto con lo sguardo dell’altro fuori dalla realtà virtuale. E’ il momento di allestire dei piccoli atelier di teatro, danza, pittura, scrittura creativa, dove il sé possa esprimersi e mettersi nuovamente alla prova. “La città di Smeraldo”, come già nel libro da cui l’associazione trae il nome, vuole essere il luogo concreto dove si riprende a crescere, dove si rielaborano le esperienze che permettono una presa di coscienza piena di sé, dove si riorganizza la speranza nel futuro di ragazzi che proprio questo percorso di crescita e di realizzazione di sé avevano interrotto.