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“Cosa serve ai nostri ragazzi. I nuovi adolescenti spiegati ai genitori, agli insegnanti, agli adulti”, Utet, 2020: in un testo agile, scritto in modo semplice e diretto, Matteo Lancini presenta una serie di considerazioni e riflessioni che ci aiutano a comprendere il funzionamento psichico, i pensieri, i problemi degli adolescenti del nostro tempo. Mi auguro che le note che seguono, che riassumono solo parzialmente alcuni contenuti del libro, siano utili a metterne in evidenza la ricchezza di spunti e i motivi d’interesse. Una prima considerazione è che l’ambiente e la società in cui crescono le nuove generazioni sono profondamente diversi da quelli dei loro genitori. Si tratta di un cambiamento che investe i modelli educativi, i ruoli genitoriali, la percezione degli altri in una società il cui orizzonte simbolico e lo stesso modo di vita hanno attraversato un rapido e pervasivo processo di trasformazione. Nel passato era comune vedere bambini sotto i 10 anni che si spostavano da soli per la città per recarsi a scuola o per trovare un amico. Oggi questo, nell’ambito della nostra società iperprotettiva, non è più immaginabile, le piazze e gli spazzi virtuali sembrano essersi sostituiti ai cortili, alle strade. Eppure, camminare per la città da soli o in compagnia di coetanei, scoprire nuovi spazi umani non controllati o protetti dagli adulti costituiva uno degli aspetti tipici del percorso di crescita dell’adolescenza.
Durante l’infanzia i nostri ragazzi crescono in un ambiente ricco di stimoli, in cui la solitudine è bandita ed il tempo è spesso gestito da una sorta di “madre virtuale” che dal luogo di lavoro e attraverso lo smartphone organizza le attività di nonni, tate, baby-sitter adibiti alla cura dei figli ed incaricati di prelevarli alla scuola materna, condurli in piscina, alla lezione di inglese, ecc. La funzione del padre sembra essersi “rotta”, aver perduto d’importanza e centralità. La relazione con i figli non è più improntata, come nel passato, ad un modello normativo, in cui la relazione affettiva poteva interrompersi con il bambino disobbediente o troppo espressivo. A questo approccio etico normativo se ne è sostituito uno affettivo e relazionale.
Nel periodo infantile è forte l’insistenza sull’amicizia (a cui si contrappone peraltro una certa diffidenza nei confronti delle amicizie nel periodo dell’adolescenza). Già dalla scuola materna, si abituano i bambini a dare importanza alla popolarità e al successo, che diventano valori fondamentali. In questo contesto, come testimonia il desiderio di condividere tutto sui social da parte dei genitori, la distinzione tra pubblico e privato è divenuta sempre più flebile e la stessa distinzione tra vita reale e virtuale tende a scomparire.
Un altro elemento importante da considerare in questo contesto è la tendenza dei genitori ad eliminare ostacoli e frustrazioni durante il periodo di crescita dei loro figli. È possibile che ciò in qualche modo rifletta un senso di inadeguatezza o di incapacità ad affrontare questo dolore da parte dei genitori stessi. Quello che ne consegue è una tendenza ad attribuire a terzi le difficoltà dei figli: all’inadeguatezza della scuola, dell’insegnante, dell’allenatore di calcio, degli altri compagni di scuola, eccetera. Una tendenza questa che influenza anche i figli che tenderanno a nascondere ai genitori le proprie difficoltà per paura di deluderli. Si assiste ad “una rimozione collettiva del dolore a cui partecipano attivamente madri e padri che innescano, inconsapevolmente, meccanismi difensivi che promuovono una sorta di sparizione del bambino reale a favore di un bambino ideale.”[1]
Il rischio posto da tutto ciò è che madri virtuali, società del narcisismo e internet creino ed alimentino durante l’infanzia aspettative ideali troppo elevate su sé stessi, aspettative che andranno spesso deluse durante la fase della seconda nascita, quella dell’adolescenza, in cui si compiono processi di maturazione del corpo, di separazione dai genitori e di soggettivazione. Ciò costringe i genitori a fare i conti con i figli reali, con soggetti altri da loro, diversi dalle loro aspettative ideali, aspettative che sono anche state interiorizzate e fatte proprie dai figli stessi durante l’infanzia.
Durante l’adolescenza, d’altra parte, si incominciano ad affrontare difficoltà nuove, non sperimentate nel mondo protettivo dell’infanzia. A questo proposito, è importante ciò che avviene nel mondo della scuola, istituzione che svolge un ruolo fondamentale nella vita e nel processo di maturazione dei ragazzi. Rispetto a quella che la precede, la scuola secondaria è più competitiva, difficile, richiede più sottomissione e fatica, impone test e misura il rendimento. Ne nascono per molti difficoltà ed insuccessi, ardui e dolorosi da affrontare sia per gli studenti che per i loro genitori.
Di fronte a questa situazione, nei genitori, confusi e traumatizzati, prevale spesso la tendenza a ritornare ai modelli educativi del passato, normativi e limitanti, con cui sono cresciuti. In luogo di strategie efficaci per aiutare i figli ad affrontare il disagio ed il dolore, si ricorre alle proibizioni, si impongono misure sanzionatorie. Sintomatico è quanto accade nei confronti dello smartphone che, da strumento di geolocalizzazione o di celebrazione della bellezza dei propri bambini, viene demonizzato e considerato la causa delle distrazioni dei figli e dei loro insuccessi scolastici.
I telefonini, internet diventano una sorta di capro espiatorio, la causa, il colpevole che i genitori preferiscono additare per liberarsi dei propri sensi di colpa. Non si riflette, come si dovrebbe, sull’influsso che la nostra cultura individualista e del narcisismo esercita sulla psicologia degli adolescenti, non si prende in considerazione il fatto che siamo i primi, come genitori, a adottare i comportamenti che contestiamo ai figli, tra uso continuo del telefonino stesso, selfie, presenzialismo sui social media e via dicendo.
Gli adolescenti di oggi sperimentano una discrepanza tra le aspettative ideali in cui sono stati allevati durante la loro infanzia e la realtà che scoprono da adolescenti. Le aspettative narcisistiche che i genitori e la cultura odierna hanno instillato in loro fanno sì che non si sentano mai abbastanza popolari, belli, all’altezza delle aspettative proprie e degli altri. Inutile dire che ciò genera grande sofferenza.
Ma utilizzare oggi i modelli educativi di ieri, con i loro richiami all’etica dell’obbedienza e del dovere, è controproducente e rivela la fragilità degli adulti che per essere autorevoli si trasformano improvvisamente in genitori autoritari. All’opposto di ciò che si vorrebbe, tali comportamenti comportano una perdita di autorevolezza e di credibilità nei confronti di giovani che rimangono disorientati di fronte a questo inaspettato cambio di atteggiamento. “Internet e dipendenza dallo sguardo di ritorno degli altri, esattamente quello che gli abbiamo proposto per i primi dodici anni di vita, che improvvisamente vengono guardati con sospetto. Tutto quello che ritenevamo bello e importante per i nostri bambini diventa brutto e cattivo con l’adolescenza, tutto sbagliato e, comunque, del tutto esagerato”. La conseguenza, enunciata all’autore in modo diretto ed esplicito, è che “su queste basi abbiamo costituito la più significativa emergenza educativa degli ultimi tempi: una precocizzazione e adultizzazione del bambino a cui facciamo seguire una infantilizzazione dell’adolescente.” [2]
Gli adolescenti di oggi non hanno alcuna tendenza alla trasgressione, non vogliono combattere contro un padre onnipotente e norme super-egoiche. Il loro problema centrale non è il bisogno di trasgredire, ma la delusione di fronte ad aspettative così elevate da rivelarsi irraggiungibili. Lungi dal contrapporsi agli adulti, in loro ricercano ascolto, una presenza autorevole che li aiuti a superare questo dolore e questa sensazione di inadeguatezza. La relazione tra adolescenti e adulti riveste un’importanza fondamentale. Affinché questa relazione sia efficace e autenticamente educativa, è necessaria una comprensione della complessità e della specificità delle situazioni che coinvolgono l’adolescente, rifuggendo dalle soluzioni ingannevoli e semplificatorie che si esprimono, per esempio, in formule stereotipate del tipo “meno internet e più studio“.
È importante non generalizzare, non scambiare i normali disagi che comunque caratterizzano una fase di crescita e di adattamento con qualcosa di più grave. Ma è bene sapere che, in questo contesto di delusione e sofferenza, possono sorgere, nei casi più gravi, tendenze suicidali oppure comportamenti estremi, influenzati dalla rete, come il selfie estremo, o anche il sexting o il cyberbullismo. Si tratta di comportamenti posti in atto per lenire il dolore causato dalla consapevolezza della propria fragilità o della mancanza di popolarità e successo. È un modo di rendere tollerabili i fallimenti inevitabili della crescita, la sensazione pervasiva e terribile di non avere valore. A tutto ciò internet sembra offrire una valvola di sfogo: “Nell’adolescente in preda all’ impopolarità, avvolto dalla sensazione di essere fallimentare, senza futuro, prende forma dinanzi a sé un ostacolo insormontabile, davanti al quale, in base al proprio funzionamento psichico e affettivo, si decide di scomparire o di tentare di superarlo mettendo in scena un’azione grandiosa. Da una parte il tentativo di suicidio o il ritiro sociale, dall’altra parte la sovraesposizione virtuale. In qualunque caso sono forme sempre più diffuse del disagio adolescenziale, che si esprimono attraverso l’attacco a sé e al proprio corpo o attraverso fantasie di recupero maturativo agite in rete. “[3]
In questo ambito rientrano i disordini alimentari, prevalentemente femminili, il ritiro sociale, prevalentemente maschile (si pensi al fenomeno degli hikikomori giapponesi, ormai molto diffusi anche in Europa e in Italia), il self cutting, il consumo di cannabinoidi, gli attacchi di ansia e di panico.
Si tratta di comportamenti di ragazzi che soffrono per non essere all’altezza delle proprie aspettative, che non attaccano il mondo adulto e la società. Da questo punto di vista, il consumo dei cannabinoidi non ha più una valenza simbolica e trasgressiva o di ribellione. Queste sostanze non sono utilizzate “contro”, ma piuttosto in funzione sedativa e a sostegno di sé stessi. Di questo quadro, avverte Lancini, è necessario tener conto quando si svolgono interventi di informazione e prevenzione presso le scuole.
Il self-cutting non rappresenta più, come si poteva ritenere in passato, un attacco al proprio corpo visto come oggetto erotico e “peccaminoso”, tanto più in una società come la nostra in cui il corpo e le sue immagini non sono più oggetto di proibizione e fobia. È piuttosto una richiesta indiretta di intervento ed un gesto “anestetico”: si preferisce provare dolore fisico per sfuggire ad una sofferenza psichica che appare insopportabile.
In questo quadro, nuovo e al tempo stesso complesso, la scuola può e deve svolgere un ruolo fondamentale di auto e di sostegno nella crescita degli adolescenti. È un punto che l’autore sottolinea con chiarezza: “…La scuola dovrebbe affermarsi come luogo elettivo dell’elaborazione e messa in atto di modelli culturali e operativi che contrastino il predominio odierno della proposta massmediatica e di internet e lo strapotere imperante di individualismo e competizione. “ [4]
Per farlo, la scuola dovrebbe adattarsi maggiormente alle esigenze di ragazzi che cercano negli insegnanti la capacità di guidarli attraverso uno sguardo di ritorno incoraggiante ed una relazione positiva. Su queste premesse, Lancini ritiene che bocciature e voti non siano uno strumento adeguato ad affrontare le difficoltà che i ragazzi incontrano nel loro percorso scolastico. Ciò che oggi servirebbe è un insegnamento più personalizzato e tollerante nei confronti degli errori, orientato a trasformare i possibili, spesso inevitabili fallimenti in opportunità di crescita senza necessariamente imporre esperienze di mortificazione. Non si tratta di offrire il “sei politico”. Anche senza i voti, precisa l’autore, la scuola dovrebbe essere in grado di esprimere valutazioni severe e di testimoniare con autenticità le differenze di merito fra gli allievi. Il problema non sono le promozioni facili, ma l’alto tasso di abbandono scolastico.
Auspicando la costituzione di una nuova alleanza tra scuola e famiglia sin dai primi anni di istruzione, “Cosa serve ai nostri ragazzi” indica anche ai genitori un elemento cardine per lo sviluppo di una nuova cultura educativa. Si tratta della capacità di amare ed apprezzare di più i figli degli altri in una sorta di “genitorialità diffusa”, creando un ambiente in cui non si mira ad eliminare qualsiasi difficoltà per i propri figli, ma a farsi carico delle difficoltà degli altri e della loro diversità, considerando la diversità come un patrimonio importante da un punto di vista educativo. Del resto, il benessere degli altri bambini va a beneficio di tutti, anche dei nostri figli di cui, peraltro, sono spesso gli amici e i compagni di studio e di giochi.
I “genitori autorevoli”, hanno questa capacità. Più in generale, sono in grado di accettare la presenza del dolore nei figli, dando loro la possibilità di esprimersi, di parlarne. Superando la tendenza a concentrarsi su ciò che non va, su ciò che non corrisponde alle loro aspettative, scoprono o riscoprono nei propri figli ciò che di loro apprezzano, sapendoglielo comunicare. I nostri figli, ci ricorda Lancini, vanno amati per quello che sono, anche se questo talvolta è molto difficile.
[1] “Cosa serve ai nostri ragazzi”, pagina 22. L’autore di questo testo, il professor Matteo Lancini, è psicologo, psicoterapeuta, presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano e docente presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca e presso la Scuola di formazione in Psicoterapia dell’adolescente e del giovane adulto del Minotauro.
[2] ivi, pagina 28. Al tema dei genitori autorevoli, sopra accennato, è dedicato un altro libro molto interessante dello stesso autore: “Abbiamo bisogno di genitori autorevoli”, Matteo Lancini, Mondadori, 2017
[3] ivi, pagina 31
[4] ivi, pagina 43
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