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Hikikomori è il termine coniato in Giappone per definire un fenomeno emerso negli anni settanta in quel paese prima che in altri e significa “stare in disparte, isolarsi”. Un sondaggio del 2016 del governo giapponese riporta un numero di hikikomori pari a 541.000 persone, di età tra i 15 e i 39 anni, ma il dato sembra largamente sottostimato. In Italia per indicare il medesimo fenomeno è più in uso il termine “ritiro sociale”: una forma di isolamento sociale diventata patologica che nel nostro paese coinvolge circa 120.000 adolescenti che trascorrono su internet oltre 12 ore al giorno, mostrando sintomi importanti quali:
A ciò si accompagna l’allarme per ore di sonno perse, difficoltà nello studio con crescente distrazione nell’apprendimento, disattenzione generica nella vita di tutti i giorni e problemi della vista. Questi i principali risultati emersi dalle ricerche della Società Italiana di Pediatria (SIP), presentati a Bologna nell’ambito del congresso nazionale 2019, riguardanti i preadolescenti e gli adolescenti nella fascia d’età tra gli 11 e i 17 anni.
Si sostiene che il fenomeno in Italia sia in crescita per la presenza di alcune condizioni simili a quelle riscontrabili in Giappone: eccessiva protezione della famiglia, narcisismo, relazione madre-figlio molto stretta e stato di incertezza delle condizioni sociali che disorientano chi è emotivamente più esposto.
L’inizio del ritiro sociale ha il suo esordio tra l’ultimo anno delle scuole medie e i primi due anni delle superiori e tendenzialmente riguarda maggiormente il genere maschile, anche se il numero delle ragazze è in continua crescita. Sono ragazzi con un passato scolastico brillante, intelligenti, con tendenza all’introversione, che impattano malamente con gli sviluppi della crescita corporea adolescenziale e con i compiti evolutivi dell’età, perdendo i punti di riferimento che li hanno sempre sostenuti. La percezione della propria inadeguatezza, lo sperimentarne la vergogna per la propria bruttezza non solo fisica, ma totale, il terrore per l’insuccesso sociale e per la non popolarità presso i coetanei portano a pensare che l’unica via di uscita sia il suicidio sociale, che inizia con la morte del sé-studente, nella speranza che ci si dimentichi presto di lui (cfr. Pietropolli Charmet G., La paura di essere brutti, ed Cortina, 2013).
Dal punto di vista psichiatrico, c’è stato un ampio dibattito sulla dipendenza da videogiochi. La video gaming addiction, è diventata una realtà anche in Italia: secondo la ricerca Espad 2018, sono 270.000 i ragazzi che nei confronti di internet hanno un comportamento «a rischio dipendenza». Il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM-5, non ha classificato questo comportamento come nuova forma di dipendenza, ma l’ha collocato fra le aree che meritano attenzione. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’OMS, invece, ha inserito la dipendenza da gioco digitale, Gaming Disorder, nell’International classification of diseases (ICD11), spiegando che si tratta di un modello di comportamento di gioco persistente o ricorrente (gioco digitale o videogame), che può essere online su Internet o offline e che prende il sopravvento sugli altri interessi della vita. Oltre a ciò, il fenomeno è caratterizzato da perdita di controllo sul gioco per quanto riguarda la frequenza, l’intensità, la durata e di conseguenza la capacità dell’individuo di interromperlo evitandone l’escalation. Per la prima volta una parte della comunità scientifica ha classificato questa come una forma di dipendenza patologica.
Anche l’utilizzo compulsivo dello smartphone configura il rischio di una dipendenza, spesso poco riconoscibile per la difficoltà a distinguerla dalla semplice abitudine. Attualmente pochi Paesi classificano la dipendenza da internet e quella da smartphone come vere patologie. I tratti riconoscibili individuati finora indicano ansia e irritabilità dopo un periodo di astinenza, tentativi falliti di spegnere il telefonino e compromissione delle relazioni sociali. La dipendenza è associata a sbalzi d’umore, isolamento, perdita del controllo, ansia, astenia e depressione. Internet spesso rappresenta un rifugio soprattutto per i soggetti più timidi e con difficoltà a instaurare relazioni: evidenze scientifiche hanno confermato che la dipendenza dagli smartphone può essere causata soprattutto da noia e solitudine.
L’industria dei videogiochi riscuote successo ed è uno dei settori più in crescita in termini di fatturato e occupazione. L’industria dei videogame, negli Stati Uniti, oggi realizza un fatturato oltre ogni aspettativa, maggiore di quello del cinema e della musica. Ma perché i ragazzi non si limitano all’uso, ma piuttosto ne abusano?
Tutti i ragazzi sono attratti dalle nuove tecnologie, ma alcuni di loro, di fronte alle difficoltà evolutive della crescita, proprio nel periodo in cui dovrebbero nascere socialmente, si “ritirano”, prima dalla scuola e poi dalla società, magari dopo un episodio di bullismo o di cyber-bullismo, o in seguito ad una frase di qualche coetaneo difficile da accettare; si chiudono in casa, perché si percepiscono come brutti, non presentabili. L’episodio precipitante determina il crollo dell’ideale che questi ragazzi si erano posti. È un fenomeno che interessa soprattutto i maschi, che usano la sparizione per risolvere i loro problemi: è come se si suicidassero socialmente, sviluppando quasi una fobia verso la scuola e i rapporti con i compagni. Alcuni di loro a quel punto instaurano una relazione intensissima con Internet e i suoi giochi. Le ragazze, diversamente, procedono con un attacco al corpo più diretto, nelle diverse forme dell’autolesionismo.
Altra forma che ha a che fare con l’uso della tecnologia da parte dei ragazzi è l’assunzione di comportamenti a rischio in adolescenza: è un fenomeno adolescenziale che esiste dalla notte dei tempi, la percezione è però che questi comportamenti siano in aumento perché di recente ci sono stati alcuni eventi clamorosi e ravvicinati.
In adolescenza da sempre c’è la propensione a guardare in faccia la morte, ma non si tratta di senso di onnipotenza o di stupidità. Finita la vera epoca dell’onnipotenza, che è l’infanzia, l’adolescente entra in contatto con le verità anche depressive della vita: il suo corpo è mortale. Una volta c’erano le corse folli in motorino, i film dell’orrore, per quel brivido che dà costringersi a fare cose paurose. Questa ricerca della paura è un tentativo, anche inconsapevole, di avere un controllo attivo sulla morte.
Anche per i ragazzi di oggi il confronto con la morte esiste, ma per chi ha grosse difficoltà evolutive si fa strada la tentazione di gesti forti, di grandi azioni, dal selfie estremo, al blackout, alla balena blu. Sono ragazzi più vulnerabili di altri che si sentono bloccati, privi di prospettive future e alla ricerca disperata di popolarità.
La necessità di mettersi alla prova è una delle motivazioni scatenanti per comportamenti rischiosi, come quelli dei due ragazzi che hanno perso la vita nel settembre 2018 a Milano, uno precipitato da un tetto mentre si faceva un selfie, l’altro morto per soffocamento mentre eseguiva un tentativo di “black-out”. Ciò che accomuna i due eventi è il fatto che le sfide cui i ragazzi si sottoponevano avevano come teatro i social network.
La ricerca di popolarità e di successo da parte di questi ragazzi si inquadra in una società nella quale anche gli adulti ripongono sempre più importanza nell’esserci, nell’apparire, nel farsi selfie e avere riscontri positivi. Il problema degli adolescenti non è la trasgressione, non fanno ciò che fanno per disubbidire, ma per tollerare quote di delusione e per combattere la noia. Sono la generazione dei figli unici, con l’imperativo di avere tanti amici, di essere popolari fin dalla più tenera età. I bambini vengono socializzati sempre prima, gli si vieta la solitudine, e quando diventano adolescenti non si sentono mai abbastanza adeguati e conformi all’ideale che sentono di dover realizzare (Lancini M., Il ritiro sociale negli adolescenti, ed. Cortina, 2019).
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